70 anni di BANDAI

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Bandai, l’azienda giapponese che con i suoi giocattoli ci ha fatto sognare fin dalla nostra più tenera infanzia, ha compiuto lo scorso luglio 2020 i suoi primi settant’anni di vita. Ripercorriamo la sua storia: da distributore di giocattoli a colosso dell’entertainment a 360 gradi!

La storia di Bandai inizia proprio nel periodo subito successivo alla fine della seconda guerra mondiale, con il signor Naoharu Yamashina, che aveva iniziato a lavorare per un grossista di tessuti di Kanazawa (città della prefettura di Ishikawa posta sulla costa del Giappone che volge verso la Cina). Inutile dire che dopo la fine del conflitto la situazione generale in Giappone non era affatto semplice e che anche il signor Yamashina, tornato menomato dal conflitto a causa della perdita di un occhio, navigava in acque difficili. La guerra aveva fatto terra bruciata dell’economia giapponese, però di contro il nuovo contesto aveva aperto anche nuove possibilità.

Siamo nel 1947, grazie ad una conversazione fortuita Yamashina inizia ad interessarsi all’industria dei giocattoli e convince la moglie a seguirlo a Tokyo per studiare il nuovo mercato. La prima cosa che fa è portare i giocattoli  all’interno dell’industria tessile per cui lavora creando una piccola divisione dedicata alla distribuzione. I suoi sforzi vengono premiati nel 1950 quando assume il controllo della sua divisione e questa viene scorporata in una nuova società separata con sede a Taitō (a Tokyo), prendendo il nome di Bandai-Ya.

Dopo la partenza come società di distribuzione di giocattoli per conto di altri produttori, sempre nel 1950, Bandai-Ya lancia sul mercato il suo primo prodotto originale: il Rhythm Ball (リズムボール), in pratica una palla con all’interno un sonaglio. Un’idea molto semplice, ma un punto di partenza importante per una serie di prodotti destinati al vasto pubblico (soprattutto modellini di automobili e aerei in leghe di metallo molto economiche) che inizia ad acquisire sempre di più popolarità. Non è un caso se i prodotti Bandai sono annoverati tra le prime manifatture “Made in Japan” ad essere esportate negli Stati Uniti.

Gli anni ‘50 sono all’insegna dell’espansione e del miglioramento della qualità produttiva: vengono avviati molti nuovi impianti di produzione, allargati i magazzini e, cosa molto importante, a partire dal modello di auto Toyopet Crown del 1956, viene implementato il prima sistema di garanzia per l’industria del giocattolo giapponese. 

Il primo periodo dell’azienda si chiude idealmente nel 1961, con il cambio di nome nel più stringato “Bandai” e l’approdo all’estero con l’apertura del Bandai Overseas Supply a New York. Ma è due anni dopo che viene fatto il primo grande passo che ha dato una nuova direzione all’azienda e che ha cambiato dal profondo il mercato del giocattolo: nel 1963 viene avviata la produzione delle action figure basate sull’anime di Astro Boy (Atom in originale), segnando un sodalizio importantissimo con il mondo di manga e anime. Il successo del personaggio creato da Osamu Tezuka, assieme alla nascita di quella che diverrà l’industria dell’animazione giapponese come la conosciamo adesso, si conferma anche sulla linea di giocattoli a lui dedicati, tanto da portare Bandai a ridefinire completamente le sue strategie di business e marketing. Il fenomeno Astro Boy innesca un meccanismo che diventerà determinante per le serie animate: da quel momento i produttori di giocattoli si rendono conto che la creazione dei semplici giocattoli non basta, bisogna andare oltre: bisogna vendere sogni, bisogna che quelli che prima erano meri oggetti abbiano una storia, un’identità, che siano dei personaggi in cui i bambini possano identificarsi. Da quel momento in poi i produttori di giocattoli iniziano a sponsorizzare il mondo dell’animazione e dell’entertainment in generale (e nei casi più controversi a dettare regole e imporre scelte creative, come capitò sovente con le sponsorizzazioni della Clover, altro produttore di giocattoli in attività tra anni ’70 e primi ’80). 

L’espansione del marchio Bandai continua per tutti gli anni ‘70. Vengono create delle sottodivisioni e aziende sussidiare, come la Bandai Models, fondata nel 1971, e la indimenticabile Popy, un produttore a cui, consapevolmente o inconsapevolmente, i fan dei “robottoni giapponesi” devono davvero molto. All’interno delle produzioni Popy esistono infatti diverse linee di prodotti, tra cui spicca sicuramente la leggendaria linea di die-cast chiamata “Chogokin”, che prende non a caso il nome dalla “superlega” immaginaria che compone la corazza di Mazinga-Z, come raccontato nel manga a lui dedicato. Famosissimi, amatissimi e ancora molto ricercati sono i prodotti Popy ispirati alle serie robotiche: impossibile dimenticare alcuni capisaldi del giocattolo come i vari die-cast di Raideen, Getter Robot, Tetsujin 28, Danguard, Daimos, Zambot 3, Daltanious… Con il calo del successo delle serie robotiche classiche dei primi ‘80 anche il fatturato della Popy scende, tanto che questa viene riassorbita dalla casa madre nel 1983, che però porterà avanti le linee di maggior successo come Chogokin (fino al 1988, poi rinata in forma molto diversa nel 1997 come Soul of Chogokin) e Popinika, la linea dedicata ai veicoli come la Machine Hayabusa di Ken Falco e Thunderbirds (fino al 1987).

Parallelamente ai prodotti per i più piccoli Bandai porta avanti anche la produzione di kit per modellisti AFV in plastica, sono infatti molto apprezzati internazionalmente i suoi modelli in scala 1/48.
Nel luglio 1980 succede una cosa davvero singolare per il mercato del giocattolo: con l’arrivo della serie TV Mobile Suit Gundam ci si rende conto che gli anime non sono più un prodotto solo per bambini, e Bandai non si lascia sfuggire l’occasione di coniugare la notevole esperienza nella produzione di model kit per adulti con la creazione di prodotti ispirati a serie animate. Viene lanciato quindi il Gundam Plastic Model, o più brevemente Gunpla.

Questo argomento è stato già trattato in diversi articoli in questa sede, quindi non ci dilunghiamo troppo, diciamo però che grazie anche a questo fenomeno l’interesse attivo di Bandai nel mondo delle produzioni televisive cresce, tanto che nel 1983 nasce la AE Planing (poi Network Frontier, poi Bandai Media e successivamente Bandai Visual, fino ad arrivare nel 2018 dopo diverse fusioni a diventare Bandai Namco Arts), una società finalizzata alla creazione e distribuzione di anime (e non solo). Il gruppo cresce, tanto che nel 1994 anche il rinomato studio di produzione Sunrise (creatore di Gundam) ne entra a far parte! Ci basti poi ricordare che tra le produzioni di successo Bandai Visual si possono annoverare anche dei veri capolavori (come Ghost In The Shell e Cowboy Bebop, tanto per citare due dei nostri anime preferiti in assoluto).

Sempre dagli anni ‘80 Bandai entra anche nel mercato dei videogame. Ricordiamo lo sviluppo di titoli per NES e la brutta esperienza in partnership con Apple nel 1995 per lo sviluppo della console Pippin, rivelatosi un flop tale da dare del filo da torcere alle finanze dell’azienda, tanto da paventare una mai avvenuta fusione con la SEGA nel 1997, in parte scongiurata anche grazie al lancio e al grande successo del Tamagotchi di Bandai. Il passo successivo per la consacrazione nel mercato videoludico è poi avvenuto nel 2005, con la creazione del gruppo holding Bandai Namco.

Attualmente Bandai è uno dei più grandi produttori di giocattoli, figures, articoli per hobby e entertainment al mondo. Tra le sue fila conta anche diverse aziende sussidiarie, ognuna con le sue specialità e linee di prodotti specifiche, ognuna delle quali vanta una schiera larghissima di appassionati di tutte le età. Tra queste le più famose sono ad esempio Bandai Spirits, MegaHouse, Plex e sicuramente Banpresto (del cui favoloso Shin Godzilla della linea Ichibankuji abbiamo parlato qui, e che tra l’altro ha da pochissimo rinsaldato la sua presenza sui social italiani con il rinnovamento della pagina facebook e l’apertura di una pagina Instagram ufficiale).

Che dire? Auguriamo a Bandai altri 70 di questi anni e vediamo con cosa ci stupirà per il prosieguo di questo ventunesimo secolo. Magari con un vero robot alto 18 metri e in grado di camminare? Beh, in effetti lo stanno facendo in questo momento a Yokohama, e forse non è un caso…

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